Eine neue Hoffnung, fan fiction principalmente su Timo

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papelella93
view post Posted on 26/12/2008, 14:18




Ciao sono nuova e come promesso nella presentazione, visto che amo scrivere ff ne posto subito una di nuova sperando che vi piaccia (:unsure:)
non è il massimo lo so ma almeno ci provo...

1. una nuova casa

“…Kurz vorm heulen
vor deinem Grabstein zusammenfallen
Es ist viel zu viel für mich
deinen Totenschein in der Hand zu halten
Ich bete darum
dass du mich siehst und mich spürst
Versprich, dass du mir hilfst und mich berührst!
Denn wie knüpf ich an ein Leben an
allein, ohne mit dem schönsten Menschen aller Zeiten
vereint zu sein…”

“È troppo per me tenere il tuo certificato di morte nella mano” ripeto a mezza voce.
La musica batte ai miei timpani, mi fa male, se solo avessi le forze mi strapperei le cuffie dalle orecchie, ma so che questa musica è l’unica cosa che ancora mi tiene ancorata alla vita.
Scende la pioggia, cade sui miei capelli, sul mio volto, disegnando i miei lineamenti…ferma, immobile, la ascolto scivolarmi addosso, entrare tra i miei vestiti e accarezzare la mia pelle.
Fa freddo, ma non me ne curo...
Mamma, mi manchi...
Mamma, perchè mi hai lasciata sola?
Plik, plik, plik...
Il rumore della pioggia non lo sento, percepisco solo le frustate d’acqua e aria sulle mie spalle.

“...Ein neuer Tag beginnt
Eine neue Hoffnung
Ein erneutes Ende für mich
Wieder ein Kapitel
Doch meine Rolle stirbt für dich
Jetzt lass schon los, denn ich muss gehen! ”

Un tocco diverso interrompe il filo dei miei ricordi. Una mano che si posa sulla mia spalla, un corpo che mi attira a sé, strappandomi la musica dalle orecchie.
La pioggia non mi cade più addosso e quel corpo caldo mi fa comprendere quanto io abbia freddo.
“Sei matta?! Ti abbiamo cercata ovunque! Vieni…” sussurra una voce sollevata.
Mi conducono lontana da quella lapide, lontana da quei ricordi e lontana da quel rumore.
Salgo in una macchina, mi coprono con una pesante coperta, qualcuno continua a stringermi, ma io non vedo nulla.
Apro gli occhi. Inconsciamente li avevo chiusi.
Peter, il mio tutore, è l’uomo che mi tiene stretta. “Perché sei andata via così? I tuoi tutori saranno qui tra poco!!” mi chiede tra l’arrabbiato e il confuso.
“Dovevo salutarla un’ultima volta…” sussurro.
“Non dovresti salutarla…lo sai…è sempre qui, affianco a te…” risponde lui.
Guardo fuori dal finestrino, come se non avessi sentito, “magari potesse essere sempre al mio fianco” penso…

I ricordi di quel giorno mi attanagliano, graffiano la mia mente, lacerano i miei pensieri, come lame affilate si insinuano tra i ricordi chiusi a chiave nel mio cuore.
Ricordo di come, quel stesso giorno, tornai all’orfanotrofio, mi lavai, misi il vestito comprato per l’occasione e andai ad incontrare le persone con le quali avrei passato almeno i prossimi tre anni della mia vita, fino ai 21 anni, come prevede la legge del mio paese.
Quando li vidi, non ebbi la minima reazione. Esattamente come li immaginavo.
Lui: di media altezza, panciuto con baffi e capelli ormai grigi e radi.
Lei: un po’ più bassa e con un accenno di pancia, capelli biondi sorriso dolce in volto.
Due perfetti tedeschi. Due perfetti sconosciuti.
Ed ora sono qui, con loro, nella loro casa, dopo ore di viaggio aereo. Parlano tra loro, riesco ad afferrare il senso complessivo del discorso.
“Questa sarà la tua stanza, vedrai ti piacerà” un sorriso di incoraggiamento “sappiamo che ti piacciono molto i Nevada Tan, una band di questo Paese…così abbiamo preso spunto…” continua la donna. Io non reagisco, queste chiacchiere sono così vane e insulse alle mie orecchie, mi si accende solo una scintilla al nome della mia adorata band, ma nulla di più.
Apre la porta.
Alle pareti sono appesi poster dei Panik ovunque, sulla testiera del letto sono dipinti i loro nomi in successione. Ogni nome corrispondente al colore preferito del membro a cui appartiene.
Ma la cosa che mi fa rimanere a bocca aperta è il ritratto, dipinto direttamente sul muro.
A grandezza d’uomo, i pantaloni larghi, il cappellino che va a incorniciare il viso chiaro e quegli occhi scuri, ipnotici. Per un attimo credo di trovarmi davvero davanti a Timo.
E il suo nome dipinto sulla porta, e sotto il suo, il mio.
T:mo e Lindi.
Come nei miei sogni.
Mi riscossi, voltandomi verso i miei nuovi tutori.
“Grazie” risposi a tutte le loro moine. Avevo solo voglia di rinchiudermi lì dentro, lontana da quelle persone che non conoscevo, lontana dai ricordi, lontana dal mondo.
“Buonanotte Kalindi” sussurrò la donna, ma non le feci caso, la sentii sospirare. Fuori della porta percepii la loro tensione.
Non sarebbe stato facile per loro, ma non mi sarei mai adattata a loro perché nessun posto mi apparteneva ed io non appartengo a nessun luogo.
Sentii la porta della loro stanza chiudersi lasciandomi nel silenzio.
Un silenzio carico di timori, tristezza e voglia di scappare.
Posai le borse a terra, o meglio, le gettai accanto al letto senza curarmi di come cadevano. Mi guardai allo specchio. Ritrovai solo il riflesso della ragazzina allegra che ero un tempo. Capelli lunghi e neri che ricadevano sulla schiena fin sotto al sedere, occhi dello stesso colore che sembravano due pozzi vuoti, privi di sentimento. La carnagione mulatta risplendette ai raggi della luna.
Non respiravo in quel posto, non ce la facevo.
Uscii sul terrazzo, non so spinta da quale forza, urlai, con tutto il fiato che avevo in gola. Degli uccelli volarono via da un albero e la figura di un ragazzo si fermo sotto di esso,
alzando lo sguardo verso di me. Non me ne curai.
Quel gesto mi fece sentire forte, libera. Libera, così come le nuvolette di fiato condensato che volavano leggere verso il cielo. Una macchina passò sulla strada sottostante, prendendo la strettoia affianco alla casa, la seguii con lo sguardo finchè non scomparve oltre la curva.
Presi la decisione su due piedi, infischiandomene di ciò che sarebbe successo se mi avessero scoperto. Feci dietrofront rientrando nella stanza, presi il mio cappellino grigio e me lo infilai in testa, il piccolo frontino a destra e il fiocco dritto in fronte.
Presi la matita dal beautycase e mi truccai, non so perché lo feci, probabilmente un riflesso incondizionato.
Ripresi la strada verso la portafinestra, mi issai sulla ringhiera e poi sulla pianta rampicante che saliva forte sulla destra, con la massima attenzione a non far rumore scesi e con un balzo fui in strada, la attraversai, raggiungendo il marciapiede.
Quei movimenti mi ricordarono per qualche momento gli alberi e le praterie della mia terra. Scacciai via i ricordi.
Presi a camminare nella stessa direzione che aveva intrapreso il ragazzo di prima, senza badare dove andavo davvero, presi solo qualche punto di riferimento per poter ritornare indietro. Vagai per un po’, non capivo ciò che avevo al mio fianco, chi mi passava vicino, gli occhi pieni di lacrime. Mamma…pensai in una sola parola implorante.
Ad un certo punto vidi, non molto distante da me, un parchetto alberato, con panchine e costruzioni di ferro per bambini, al cento, una grande fontana zampillante, raffigurava una donna medievale china a prendere dell’ acqua con un anfora e, alle sue spalle, un bimbo dalla bellezza inquietante, distolsi lo sguardo, ricordandomi che era solo roccia.
Mi sedetti su una panchina, a pensare, a ricordare.
Solo dopo parecchi minuti notai una figura, prima nascosta dal zampillare ipnotico della fontana. Il ragazzo di qualche ora prima, perché erano passate ore ormai, era seduto su di un’ altra panchina, davanti a me, all’altro lato della fontana.
Mi guardava, e quando capì che anch’io lo fissavo, abbassò lo sguardo al terreno. Lo vedevo solo in contro luce. I vestiti larghi gli calzavano come un prolungamento del corpo e il frontino del cappellino gli mandava in ombra buona parte del viso. Spuntavano solo le labbra; due labbra rosee, disegnate ad arte da una matita di maestro, posate su di un viso con lineamenti altrettanto fini ma, tuttavia, virili.
Mi ricordava qualcuno, ma al momento, con la mente annebbiata dalle frustrazione, non ci pensai molto. Abbassai lo sguardo a mia volta, speravo non si avvicinasse, avevo bisogno di restare sola, di rinchiudermi nella più totale lontananza dal mondo.
Vidi con la coda dell’occhio che il ragazzo si alzava. Non alzai lo sguardo o non diedi segno di essermi accorta di lui. Mentre camminava sfilò dalla tasca qualcosa, che poco dopo identificai come un I-POD, si sedette sulla panchina affianco alla mia, ma non aprì bocca. Capii che mi fissava, percepivo il suo sguardo pesante attraversarmi il cranio per arrivare alla mia coscienza. Probabilmente si era accorto delle lacrime che solcavano il mio viso, ma non m’importava che mi vedesse piangere, probabilmente non l’avrei più rivisto. Mi voltai verso di lui. Solo qualche istante, facendolo sembrare un movimento naturale, dettato dall’istinto e non dalla curiosità.
Mi bastò un attimo.
La luce del lampione, i riflessi biancastri della luna illuminavano ancora il suo volto solo dalla bocca in su, ma due inconfondibili luccichii brillavano sul suo mento, e si prolungavano fin sotto l’ombra del frontino.
Lacrime brillanti solcavano quel viso di marmo, bianco, perfetto, per pochi istanti mi convinsi che quel ragazzo non fosse niente più di una statua bagnata dalla pioggia.
Per qualche strana forza della natura, mi sentii legata a quello strano ragazzo.
Mi capiva, sentivo dal profondo che quelle lacrime potessero legarsi alle mie e dar vita a qualcosa di meglio di un pianto di dolore, come se potessero trasformarsi in rose pronte a coronare me e quello sconosciuto a capo del mondo.
Ma che diavolo sto dicendo?? Pensai, stupita da ciò che la mia stessa mente aveva fabbricato. Mi alzai, quasi scattai, riprendendo il mio cammino, sotto lo sguardo vigile di lui che non accennava a staccarmi gli occhi di dosso.
Ricomincia a camminare, facendo il percorso di poco, o forse molto, prima a ritroso. Camminando tra le persone e gli edifici non riuscivo a non pensare a quel viso in penombra, a quella sofferenza che lo solcava, così simile alla mia, così confortante.
Quando fui arrivata mi voltai a guardare la casa, un posto a me estranea, dove non mi sarei mai sentita a casa. Mi arrampicai cercando la strada più semplice e saltai all’interno.
Mi cambiai velocemente e mi sdraiai a letto. Lasciai la finestra aperta, così che l’aria mi investisse, anche se i rumori della città m’invadevano i timpani.
Chiusi gli occhi e quel viso rigato di lacrime mi saltò alla mente, li riaprii, ma il ricordo non scomparve. Mi alzai, camminai qualche istante per la stanza osservando i vari poster e, quando mi trovai di fronte al Timo dipinto sulla mia parete, gli bacia una guancia, il contatto era freddo, duro e non mi diede emozioni. Quelle labbra mi saltarono agli occhi, i pezzi del puzzle si incastrarono. Quel ragazzo mi ricordava il mio Timo, sempre nei miei pensieri. Mi misi a letto e mi addormentai con l’immagine del corpo di quel ragazzo in testa.

commentate in bene o in male :P
 
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***LiNkE's MINE!***
view post Posted on 26/12/2008, 14:55




è bellissima!!!
anche io amo scrivere ff!!^^
 
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papelella93
view post Posted on 26/12/2008, 14:56




grazie mille ^^
 
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• ~ V o v s
view post Posted on 26/12/2008, 18:10




Molto bella complimenti :]
Posta anche le altre appena puoi!
 
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papelella93
view post Posted on 26/12/2008, 18:14




^^
 
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{« Deanna_Diamonds ~
view post Posted on 26/12/2008, 21:04




wooow! ma sei bravissima!!!!! scrivi benissimo! posta *curiosa* ^^
 
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papelella93
view post Posted on 26/12/2008, 21:18




Grazie!!!!!
ecco il secondo capitolo...premessa di cui non vi fregherà niente il cappellino grigio esiste veramente XD è molto importante per me e lo è anche per la prtagonista della FF

2. “HiMMEL HiLF !!”

“Guten Tag Lindi!”.
Sobbalzai sul letto “Gu-guten Tag!“ risposi insonnolita.
I miei occhi ci misero un po’ per abituarsi alla luce, e quando Claudia uscì, mi alzai tirando fuori tutta la volontà che mi era rimasta.
Frugai nella borsa ed estrassi dei pantaloni rossi e una maglia bianca con disegni vivaci. Mi riavviai i capelli alla ben’e meglio e scesi indossando le ciabatte appoggiate vicino alle scale.
Mi siedo al tavolo. Marito e moglie mi salutano allegri e io ricambio come posso.
Di certo non sono tutta sorrisi e baci, ma mi sto sforzando di non urlargli che me ne voglio andare. Gli occhi mi pizzicano un po’.
Come un turbine nella mia mente si affollano ricordi della sera precedente.
Lacrime. Ma non sono le mie, le lacrime di quel ragazzo, m’investono, sento come una voglia pressante di tornare in quel parco, sedermi a quella panchina e stare lì, ad aspettarlo, ancora e ancora, finchè il suo sguardo non si intrecci col mio.
“Ti senti bene?”.
Mi riscossi dai miei pensieri, mi sorpresi, quasi, quando capii che mi appartenevano. Annuii un po’ imbarazzata. Certo non è normale vedere una ragazza che s’imbambola con la forchetta a mezz’aria mentre fa colazione.
Spazzolai via tutto quello che mi misero davanti. Mi alzai e Claudia, fingendo di buttare lì l’argomento, chiese “Ti andrebbe di andare a prendere dei vestiti nuovi oggi? I tuoi mi sembrano un po’ consumati”.
Mi si accese una scintilla dentro, da quanto non prendevo dei vestiti? Dalle mie parti non ne avevi di nuovi finchè quelli vecchi ti calzavano.
“Davvero?” chiesi imbarazzata. Hermet e Claudia si scambiarono uno sguardo divertito, e io arrossii fino alla punta dei capelli. Ringraziai la mia carnagione che nascondeva almeno in parte il mio rossore.
“Sì, davvero” rispose lei.

Poco dopo, avevo sistemato tutte le mie cose nella mia stanza, comprese foto e souvenir. Mi portarono in una stanza. Sulla porta c’era scritto “Kalindi”. Il mio studio.
Sulla scrivania erano già riposti con ordine i libri che avrei dovuto usare da lì a due mesi, dentro ai cassetti erano riposte matite, penne, gomme, righelli, matite colorate, pennarelli e adesivi colorati. Nell’angolo destro delle confezioni di blocchi da disegno ancora chiusi.
“Ci hanno informato della tua passione per il disegno, così…” esordì Hermet, lasciando la frase in sospeso. Annuii. Era vero, adoravo disegnare, ma non sapevo se avrei ricominciato, al mio paese c’erano molti luoghi da cui prendere spunto, invece qui…qui era tutto mattoni e marciapiedi.
Mi diedero un paio d’ore libere, presi un blocco con dei fogli da disegno, una matita, una gomma e mi rallegrai nel vedere un carboncino nero di quelli che usavo spesso io.
Riposi il materiale dentro un astuccio, e l’astuccio e il blocco dentro uno zaino che mi misi in spalla e portai in camera.
Mi sedetti alla scrivania.
Cercai nella mia mente dei paesaggi da poter riportare nel foglio, ma mi venne in mente solo un albero, il mio grande salice piangente che stava ancora in India, che raggiungevo a nuoto con la canoa. Disegnai il fiume e la canoa, poi l’albero e sotto l’albero un ragazzo. Il suo stile nel vestire, non si adattava a quel luogo, ma per qualche strana ragione sembrava esserci nato dentro, era perfetto per essere lì.
Il ragazzo del parco, ancora una volta mi era saltato in mente e, ancora una volta, mi era salita la tentazione di correre via, scappare fino alla fontana col bambino dalla bellezza inquietante e aspettarlo lì, finchè non fosse arrivato.
Scacciai via i pensieri. Ma che diavolo mi prende?? Pensai sconcertata.
Mi sdraiai a letto e infilai le cuffiette nelle orecchie lasciando che le note di “Echo” facessero da colonna sonora ai miei pensieri.
Timo, dove sei? Che stai facendo? Ti penso Timo, ti penso sempre e non so neppure perché, ti ho impresso nei miei sogni. Devo incontrarti, ti porterò in India, ti farò vedere il mio Salice, il mio posto segreto. Ti porterò dove non ho mai portato nessuno…solo io e te.
I pensieri scorrevano fluidi, ma ad un certo punto mi resi conto che il volto del ragazzo del parco, nella mia mente, si era sovrapposto a quello di Timo. Non immaginavo più io e Timo, ma io e quel ragazzo. Una volta ancora quella strana voglia mi prese alla bocca dello stomaco e mi spinse a correre verso di lui, ancora una volta la respinsi.
Guardai l’ora, mi ero svegliata tardi e la colazione mi aveva fatto da pranzo.
Erano già le 15.30, di lì a poco Claudia sarebbe venuta a chiamarmi per uscire.
Come invocata, il suo volto sbucò dalla porta e con un sorriso a trentadue denti sventolò davanti agli occhi una carta di credito.
Spensi la musica, afferrai il cappotto il mio cappellino grigio e mi gettai fuori della porta.
In macchina sedeva un’altra ragazza, bionda, alta e con occhi verdi, due occhi da falco, indagatori, ma con un sorriso spontaneo e sincero sulle labbra.
“Viviana, Lindi. Lindi, Viviana” ci presentò Claudia. Viviana era la nipote di Claudia. Una ragazza allegra, genuina, mi accolse come se mi conoscesse da tempo, come se fossi sua amica e per un attimo mi sentii bene. Provai un immediato affetto per quella ragazza.
Passarono circa due ore e mezza di shopping sfrenato, fu la prima volta che non ebbi paura di spender soldi. Da quanto avevo capito Hermet e Claudia ne avevano abbastanza per sfamare un continente per un paio d’anni.
Comprai un sacco di vestiti, sotto lo sguardo indagatore di Viviana. Mi fidai del suo giudizio e lei si fidò del mio, entrambe dicevamo ciò che pensavamo veramente.
Fu una giornata allegra. Non pensavo sarei riuscita a sorridere dovetti ammettere.
Quando i piedi cominciarono a dolere ci infilammo dentro un bar, a ordinare tre cioccolate calde con panna da premio Oscar.
“Parlami un po’ di te” mi chiese Viviana mentre passava al terzo giro di panna aromatizzata. La guardai titubante per qualche istante e poi acconsentii.
“Che cosa vuoi sapere?” chiesi.
“Età, amici, abitudini, ragazzi, posto segreto…tutto ciò che puoi dirmi, mi stai simpatica sai e se voglio vederti ancora vorrei sapere qualcosa di più” disse, quando cominciava a parlare era u fiume in piena. Cercai nella mente tutte le parole che mi servivano e le buttai fuori.
“Beh, intanto ho diciassette anni e mezzo, anzi e tre quarti, di amici non ne ho poi così tanti, o meglio, l’unico che avevo era il mio tutore, una persona stupenda…” mi interruppi per sorseggiare un po’ di cioccolata e i ricordi di Jouseff mi tornarono alla mente.
“Ti piaceva?” chiese lei con aria maliziosa. La cioccolata mi andò di traverso. Sentii Claudia esclamare “Vivi!!!”, e poi ritirare il rimprovero quando vide che ridevo.
“Jouseff ha quarantacinque anni!” risposi divertita nel veder al faccia delusa di Viviana.
“oh” si limitò a dire lei.
Mentre finivo la mia cioccolata, il campanello del bar suonò e io mi voltai per cedere chi era entrato. Per qualche istante pensai fosse lui, il ragazzo del parco, ma quando vidi il suo volto capii all’istante che mi ero sbagliata, niente a che vedere con quella bellezza stupefacente, niente a vedere con quelle lacrime scintillanti, niente a che vedere con quella rabbia repressa che avevo visto nei suoi movimenti, no non era lui.
Lo seguii con lo sguardo e come un segugio il ricordo di quel volto sofferente prese possesso di me e di nuovo quella voglia pressante alla bocca dello stomaco mi fece venir voglia di correre da lui.
“Abbiamo gli stessi gusti”.
Fu la voce di Viviana a richiamarmi al presente. Anche lei fissava il ragazzo appena entrato, ma con pensieri tutt’altro che simili ai miei.
Durante il viaggio di ritorno non feci che pensare al ragazzo del parco. Fermi ad un semaforo sentii della musica proveniente da dentro un edificio. Non proveniva da radio o oggetti simili, era suonata dal vivo, due voci maschili cantavano, la melodia non mi suonava nuova, ma quando scattò il verde non ero ancora riuscita ad identificarla.
Arrivate a casa Viviana declinò l’invito a cena dicendo che il suo ragazzo l’attendeva. Mi sorpresi nel ritrovarmi un po’ triste nel vedere quella diciottenne, tutta capelli e sorrisi, allontanarsi.
Durante la cena Claudia fece un resoconto della giornata ad un Hermet stanco, dopo il lavoro. Gli facemmo vedere tutti i vestiti.
Mentre mangiavo mi sentivo diversa, dopo questa giornata pensai forse non sarà così difficile adattarsi a questo posto, in fondo, anche se non l’avevo ammesso ad alta voce mi ero divertita. “Grazie” dissi ad un certo punto fissando il tavolo, rossa in viso.
Sentii i due coniugi sorridere, Hermet mi accarezzò una mano e Claudia mi strinse al suo petto. Sentii quei contatti così strani sulla mia pelle, ma non spiacevoli, anzi, mi prestai a quell’affetto con piacere.
Quando la sera mi chiusi nella mia camera, però, i fantasmi del passato mi si annidarono in petto, il ricordo di mia madre, di mio padre, mai conosciuto, morto troppo giovane e mia madre che lo aveva seguito appena due anni prima, mi struggevano il cuore.
Con il buio scendeva la consapevolezza di non essere a casa mia, che non ero al mio posto, che nessun posto mi apparteneva ed io non appartenevo a nessun posto, come mi ripetevo ogni sera, come una preghiera.
Himmel Hilf, pensai con le lacrime agli occhi.
L’orologio scoccò le 23.00 e io scesi dal letto, non mi curai di togliermi il pigiama, solo m’infilai il giubbotto, il cappello grigio e le scarpe. Mi salì ancora quella voglia di tornare da quel ragazzo, come se fosse l’unico che potesse capirmi, l’unico che davvero capisse come mi sentivo. Lui. Uno sconosciuto.
Questa volta, non soppressi la voglia di scappare, lasciai che mi esplodesse nel petto, che impregnasse ogni singola fibra del mio corpo e poi la lasciai agire per me. Come la sera precedente sgusciai fuori di casa e attraversai la strada con un balzo. Inizialmente camminai, poi corsi, fino a raggiungere il parco.
Passai di corsa il sentiero alberato e raggiunsi la fontana, soffermandomi solo un paio di secondi a guardare le statue e riprendere fiato.
Poi guardai le panchine.
Lui era lì, fermo, immobile, il volto in ombra, ma sapevo che mi guardava. Un lieve sorriso accolse il mio arrivo e dopo di quello tornò impassibile, ma bastò quello a far rallentare il mio cuore, a far tornare il mio respiro alla normale velocità.
Mi sedetti sulla panchina affianco alla sua. Lo osservai senza ritegno, il suo volto era rigato di nuove lacrime, come il mio. Quelle lacrime esprimevano tristezza, mentre quelle della sera precedente rabbia.
Ritrovai la calma e i ricordi dei miei genitori mi fecero sgorgare nuove lacrime.
Urlai senza paura le parole che poco prima avevo solo pensato “HIMMEL HILF!”. Ripiombò il silenzio. Lui era rimasto impassibile. Poi una voce squarciò il silenzio
“Ein neuer Tag beginnt, eine neue Hoffnung“, era stato lui, aveva risposto alla mia invocazione con le parole di una delle canzoni chi più amavo. Mi ricordò Timo ancor più intensamente.
Restai seduta su quella panchina a lungo, a guardarlo respirare e piangere, beandomi di quella visione. Restai lì finchè ogni singola fibra del mio corpo non fu piena del suo essere. Restai a guardarlo finchè i miei occhi non furono pieni di lui. Poi me ne andai.
Lo lasciai lì a fissarmi mente me ne andavo, in fondo alla via alberata mi voltai a guardarlo un’ultima volta, poi corsi nella notte, col cuore pieno del suo ricordo.
 
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***LiNkE's MINE!***
view post Posted on 27/12/2008, 10:52




waaaaaaaaaaaaaaaaa
continua!!
 
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• ~ V o v s
view post Posted on 27/12/2008, 15:02




*____*
Continua continua che sono curiosa xD
 
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aLe;
view post Posted on 27/12/2008, 16:48




Ha lo stesso titolo della FF della socia, tanto che ho preso un colpo pensando avessa aggiornato xD
Appena posso la leggo =)
 
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{« Deanna_Diamonds ~
view post Posted on 27/12/2008, 18:05




waaaaaaaaaaa!!!!! ma é...é...belllisssssssima!
sei bravissimissima a scrivere mi ripeto!! ^^
brava bravissima! *-*
continua ;D
 
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Pearl~
view post Posted on 27/12/2008, 20:31




Già, pensavo qualcuno l'avesse letta e l'avesse COMMENTATA. HAHA.
Ehm, sì ha lo stesso titolo della mia FF.
 
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papelella93
view post Posted on 27/12/2008, 20:47




Scusa!! non lo sapevo!!! era un titolo tra l'altro provvisorio, appena me ne viene in mente un alto se ti dispiace lo cambio...comunque ecco il terzo capitolo...

piccola anticipazione per le più curiose...
SPOILER (click to view)
“Basta…” era un sussurro appena. “Basta!” ripetei un po’ più forte quando non resistetti a quella vista, ma lui non si fermò ancora. Le mani grondanti sangue, non si era lasciato sfuggire un gemito. “BASTA!” urlai in fine e lui sembrò ritornare alla realtà.


3. DOLORE

Per un paio di settimane andò avanti così.
Durante il giorno mi divertivo con Viviana e Claudia si era addirittura presa qualche giorno di vacanza dal lavoro.
Ma quando la sera scendevano le tenebre e i fantasmi del passato assalivano la mia mente, con loro cresceva la voglia di vedere quel volto rigato da quelle lacrime così simili alle mie, così ogni sera scappavo nello stesso modo, nello stesso modo arrivavo al parco e con lo stesso sorriso lui mi accoglieva, tenendo il suo viso in penombra.
Quella sera pioveva. Non avevo preso l’ombrello per non fare rumore, così arrivai al parco fradicia e con la paura che lui non ci fosse.
Invece era lì, in piedi, sotto un albero, ma c’era qualcosa di diverso…non piangeva.
Aveva smesso di piovere. Ero fradicia perciò non m’importò se la panchina su cui mi sedetti era bagnata.
Sentii u rumore di passi e, poco dopo, il calore di un corpo vicino al mio, seduto affianco a me. Il cuore mi esplose, senza motivo, cominciò a galoppare. Sentivo il suo sguardo attraversarmi la pelle e arrivarmi al cuore. Lo vidi con la coda dell’occhio togliersi la pesante maglia e porgermela.
Alzai lo sguardo. Nel farlo mi sentii mancare, questa volta nessun gioco di luce nascose ai miei occhi quel viso, dapprima le labbra, il naso, gli zigomi e infine gli occhi, quegli occhi.
Gli occhi di Timo.
Mi guardò dubbioso e mi fece un cenno d’incoraggiamento. Afferrai la maglia e la infilai. Profuma di muschio bianco e di mare, di muschio e alberi, di salici ed acqua salata…profumava di lui. Di quel ragazzo che avevo tanto sognato.
Il suo profumo mi inebriava, facendomi affluire il sangue alle guance, facendo accelerare il mio cuore e poi rallentare, a intervalli irregolari.
Ogni respiro di quel profumo era come respirare vita, come respirare…nuova forza.
“Ti senti bene?”.
La sua voce non fece che peggiorare la situazione, così profonda, bella e invitante, che il mio cuore, già al galoppo, dovette inciampare da qualche parte e ruzzolare a terra. Mi salì un cerchio alla testa e mi sentii mancare. Mi toccò un braccio.
In quel momento mi sembrava che non stesse facendo nulla per migliorare la situazione.
Quel tocco mi fece quasi svenire, la sua pelle fredda e marmorea, contro la mia calda e tenera.
“Non respiro…” biascicai a fatica.
“Hai preso troppo freddo, non devi correre sotto la pioggia…” mi rimproverò.
Ma che fa? Mi fa la paternale? pensai tra lo scocciato e il divertito.
“Aspetta…” sussurrò e in un momento le sue braccia furono incollate alle mie spalle, il suo respiro così vicino al mio, le nostre guance che si sfioravano di qualche centimetro…mancava davvero poco e avrei perso i sensi.
“N..no…non è il freddo” cercai di allontanarlo e lui si ritrasse di poco, guardandomi interrogativamente. Arrossii violentemente mentre sussurravo “Sei tu…”.
Mi fissò sorpreso per qualche istante e mi lasciò con un “oh…” a riempire il silenzio. Si lasciò sfuggire un sorriso compiaciuto di troppo e gli lanciai un’occhiataccia.
L’ho guardato male? Ma sono pazza? Cioè! Ma che mi prende? mi rimproverai mentalmente.
“Sono Timo” si presentò improvvisamente, io lo guardai, lo so avrei voluto rispondere.
“E tu sei…” mi incoraggiò lui fraintendendo il mio silenzio.
“Sono Tim…cioè no…Kalindi…ma chiamami Lindi” risposi confusa.
Sono Timo? ripetei nei miei pensieri, Bella mossa, Lindi! Bella mossa!
“È da qualche sera che ti vedo…più che altro ti sento” ingiunse lui, era chiaro come il sole che avrebbe voluto sapere perché urlavo come una deficiente in piena notte.
“Beh…io…” non so da dove mi salirono le parole, ma cominciai a raccontare tutto di me, le parole scorrevano e il mio sguardo avido di lui non si perdeva una sua minima mossa, m’immersi nei suoi occhi profondi, due pozzi di sentimenti, emozioni, vi lessi gioia, dolore, allegria, tristezza, ma soprattutto rabbia. Chissà cosa legge lui nei miei…mi ritrovai a pensare.
“La verità è che sono arrabbiata, molto arrabbiata. Se il mio cuore provasse solo un sentimento, il più forte sarebbe la rabbia, perché ne ho troppa” conclusi. Ero passata da mia madre, a mio padre, al mio salice piangente, a Claudia ed Hermet, alla rabbia che provavo con un solo discorso.
Lui ascoltò tutto e sembrò immagazzinare.
“Non puoi immaginare quanta ne ho io di rabbia” rispose alla mia non domanda.
Lo guardai pensando che era impossibile che potesse averne più di me. Anche lui cominciò a raccontare. Mi raccontò storie che già sapevo su di lui, degli anni di collegio che tanto odiava, ma raccontate da lui erano tutt’un’altra storia.
Mi disse che quello era il parco in cui si rifugiava quando riusciva a scappare dal collegio, che andava lì a sfogarsi, a rigettare la sua rabbia, il suo furore.
“Ma la rabbia che avevo allora, non si è mai placata, né prima, né ora, allora vengo qui, a rigettare il mio dolore per quegli anni, sperando che un giorno svanisca. Ma la rabbia mi tenta, come una furia nel mio petto, mi fa diventare violento…mi fa perdere letteralmente il controllo, se non la scarico” mi confessò con lo sguardo fisso alle sue mani.
Si toccò distrattamente il bordo del frontino.
“E ora devo sfogarla, piangere non mi basta mai…” sussurrò ancora e questa volta la sentii, una rabbia di fuoco nella sua voce, un fuoco che bruciava tutto ciò che gli stava accanto.
Inaspettatamente si alzò.
“Fermami solo se strettamente necessario, di solito ci pensa il custode, ma visto che ci sei tu…” mi sussurrò e io lo guardai spaesata.
Ma di che parlava? Fermarlo da cosa? E io come facevo a sapere quando era strettamente necessario? E, poi, necessario CHE COSA??
“Ma…cosa…” cercai, ma le parole mi morirono in bocca quando lo vidi, guardia alta rivolto all’albero, come se volesse abbatterlo.
Sta scherzando, non lo fa davvero…pensai con un sorriso.
Sbagliavo. Con un urlo, lanciò il primo pugno, con forza, dritto al centro del tronco.
Ma sei pazzo?! stavo per urlare, quando mi ricordai delle sue parole e non lo formai. Sentivo nel mio cuore che era profondamente sbagliato ciò che faceva, ma sapevo anche che lui ne aveva bisogno, perciò non parlai.
Lo fissai mentre si faceva del male, gli occhi che grondavano lacrime di rabbia e di dolore, ma non si fermò, neppure quando le nocche gli si aprirono, un a ad una, nemmeno quando schegge di legno gli penetrarono nelle ferite aperte, continuava imperterrito a picchiare il legno, come se ne andasse delle sua vita.
“Basta…” era un sussurro appena. “Basta!” ripetei un po’ più forte quando non resistetti a quella vista, ma lui non si fermò ancora. Le mani grondanti sangue, non si era lasciato sfuggire un gemito. “BASTA!” urlai in fine e lui sembrò ritornare alla realtà.
“Mwhh” grugnì massaggiandosi le dita.
Si lasciò scivolare affianco a me sulla panchina. Gli fissai le mani, dalle nocche spuntavano frammenti di corteccia e il sangue gli sporcava le mani e le braccia, ormai fino ai gomiti.
“Sanguini troppo e rischi di fare infezione con quegli spini” dissi indicandogli le mani. “Abiti molto distante da qui?” chiesi e lui annuì incapace di parlare per il dolore. “Ti porto a casa mia” dissi decisa e lui non oppose resistenza. Mentre stavamo percorrendo la via alberata sentii dei passi e un uomo sbucò dall’oscurità. Il suo volto passò da me a Timo.
“L’ha fatto di nuovo” sospirò l’uomo. Pensai alle parole di Timo poco prima, quello doveva essere il guardiano. “Ci pensi tu?” mi chiese l’uomo e io annuii.
Ripresi a camminare, più veloce che potevo. Aveva il volto terreo in contrasto col colore scarlatto del sangue.
Arrivammo davanti alla soglia di casa mia dopo una decina di minuti. Troppi . Pensai allarmata. Quando fummo sul marciapiede davanti casa mia, lo fermai, mi sporcai le mani con il suo sangue e sporcai il terreno con quello. Ripetei l’operazione più volte finchè il colore della terra non mutò. Avevo già una scusa pronta per Claudia ed Hermet che da lì a qualche istante si sarebbero trovati uno sconosciuto sanguinante in casa.
Spiegai il mio piano a Timo.
“Difficile uscire da una rissa senza un livido in volto” dissentì lui. Ci pensai qualche istante. In effetti era vero, troppo vero.
“Dammi un pugno”. Lo guardai con gli occhi sbarrati. “Cosa??” esclamai guardandolo come se avessi di fronte ET. “Fallo, devi farlo o..” non lo lasciai finire, non so da dove trovai la forza ma gli sferrai un pugno in pieno volto. “Ohio!” esclamò lui “bel destro”. In pochi minuti il suo zigomo si gonfiò e divenne di un leggero bluastro.
Entrai in casa, aprendo la porta con la chiave di scorta e all’ultimo momento mi accorsi di avere il suo maglione, lo tolsi e lo gettai a terra.
“Claudia!!” esclamai facendo rumore. Sarebbe stato sospetto se non l’avessi chiamata e poi non sapevo dove si trovavano i farmaci.
Scese tutta trafelata, con Hermet al seguito. Si lasciò sfuggire un urlo alla vista di Timo. Lo riconobbe, ne fui sicura, ma afferrò la situazione al volo e andò ad uno scaffaletto estraendo garze, cerotti, pinzette e acqua ossigenata.
“Com’è successo?” chiese mentre facevo sedere Timo al tavolo.
“Ho sentito delle urla da fuori così mi sono affacciata e ho visto dei ragazzi, quattro o cinque che lo picchiavano, ho minacciato di chiamare la polizia, sono scappati e sono scesa a vedere come stava, riusciva ad alzarsi perciò l’ho condotto in casa e ti ho chiamata” feci il resoconto. Una bella bugia pensai.
“E perché hai usato le chiavi di riserva?” chiese sospettosa, passandomi le pinzette.
“Mi ero chiusa fuori” mentii, ancora senza insicurezze. Notai Timo che mi guardava ammaliato dalla prontezza delle mie risposte.
“E come hanno fatto questi pezzi di legno a finirti nelle nocche?” era più una riflessione. Timo fu lesto quanto me. “Ho picchiato i pugni a terra” rispose.
“E perché mai?” chiese Claudia inorridita.
“Frustrazione” rispose lapidario lui.
Una ad una gli tolsi tutte le schegge, poi gli feci immergere le mani nell’acqua ossigenata, gli sfuggì un gemito.
Guardai l’orologio per controllare che passassero almeno un paio di minuti e, nel farlo, constatai che erano le due di notte. Pensavo fosse più tardi, mi dissi.
Allo scoccare del secondo minuto gli tolsi le mani dall’acqua ossigenata e lui sospirò di sollievo. L’emorragia si era ormai fermata. Presi delle bende e delle garze e gli fascia leggermente, ma con decisione, entrambe le mani. Misi un po’ di disinfettante sulla destra prima di chiudere la fasciatura perché mi sembrava quella presa peggio.
Stavo per chiedere se poteva restare durante la notte quando Claudia mi precedette, rivolgendosi direttamente a Timo. Dopo qualche pressione acconsentì.
Lo portai in camera mia, con imbarazzo sempre crescente.
“Bel ragazzo” commentò quando vide il suo dipinto al muro “ e bei gusti musicali” sorrise scorrendo i poster. “Claudia ed Hermet hanno esagerato…” mi giustificai, anche se non lo pensavo davvero, mi piaceva la mia camera, tappezzata di immagini e con le pareti arancioni. Sorrise.
“Narcisista” scherzai sottovoce e la sua risata cristallina mi fece venire un nuovo capogiro. Doveva essere un sogno.
Mentre Hermet sistemava una brandina il più distante possibile dal mio letto (c’era stata una lunga discussione ma alla fine avevo vinto io e avevamo deciso di lasciarlo salire nella mia stanza), Timo sbirciava con non curanza tra i fogli della mia scrivania.
Lo vidi soffermarsi su uno in particolare. Mi avvicinai. Arrossii all’istante, era il disegno con l’albero e…lui. “Sono io?” chiese ed io annuii rossa per l’imbarazzo. “Non sapeva ancora che eri tu, egocentrico” scherzai.
“Meglio così, almeno ti interesso non solo perché sono il cantante dei Panik, mi avevi in mente anche non conoscendomi” disse quasi tra sé ed io non persi l’occasione di provocarlo offertami su un piatto d’argento. “E chi ti dice che m’interessi?” abbassai la voce per non farmi sentire da Hermet.
Sorrise malizioso, ma lasciò cadere la provocazione.
Hermet uscì, lasciando aperta la porta e sottolineò il concetto “la porta è aperta!”.
Lui si voltò permettendomi di indossare dei vestiti asciutti, grazie al cielo aveva ricominciato a piovere nel momento giusto.
“Non sbirciare” sussurrai quasi sperando che non mi sentisse. “Non mi tentare” mi rispose invece lui sottovoce. Il mio cuore galoppò a quelle parole.
Mi stesi sul letto. Lo sentii avvicinarsi. Si chinò su di me e in contemporanea si tolse il cappellino lasciando respirare i capelli, si avvicinò terribilmente alle mie labbra e all’ultimo deviò, baciandomi la guancia. “Buona notte” sussurrò tra i denti, ancora troppo vicino.
Si allontanò ed andò a stendermi.
Aveva giocato, sì.
Ma lui non sapeva che con quel gioco aveva risvegliato il mio essere donna e l’aveva fatto esultare, non sapeva di aver acceso un nuovo bisogno in me, con quel gesto.
Non mi bastava più vederlo, avevo bisogno delle sue parole, avevo bisogno delle sue labbra, avevo bisogno del suo corpo…avevo bisogno di lui.
Avevo voglia di lui.
Una grande e dolorosa voglia di lui.
 
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***LiNkE's MINE!***
view post Posted on 28/12/2008, 14:50




uuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu
sono sempre piu curiosa!!!
 
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Pearl~
view post Posted on 28/12/2008, 15:52




Non ti preoccupare! =)
Tanto mi sa che la mia neanche la continuo più, ho la voglia sotto ai piedi di fare praticamente tutto.
 
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27 replies since 26/12/2008, 14:18   437 views
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