Scusa!! non lo sapevo!!! era un titolo tra l'altro provvisorio, appena me ne viene in mente un alto se ti dispiace lo cambio...comunque ecco il terzo capitolo...
piccola anticipazione per le più curiose...
“Basta…” era un sussurro appena. “Basta!” ripetei un po’ più forte quando non resistetti a quella vista, ma lui non si fermò ancora. Le mani grondanti sangue, non si era lasciato sfuggire un gemito. “BASTA!” urlai in fine e lui sembrò ritornare alla realtà.
3. DOLORE
Per un paio di settimane andò avanti così.
Durante il giorno mi divertivo con Viviana e Claudia si era addirittura presa qualche giorno di vacanza dal lavoro.
Ma quando la sera scendevano le tenebre e i fantasmi del passato assalivano la mia mente, con loro cresceva la voglia di vedere quel volto rigato da quelle lacrime così simili alle mie, così ogni sera scappavo nello stesso modo, nello stesso modo arrivavo al parco e con lo stesso sorriso lui mi accoglieva, tenendo il suo viso in penombra.
Quella sera pioveva. Non avevo preso l’ombrello per non fare rumore, così arrivai al parco fradicia e con la paura che lui non ci fosse.
Invece era lì, in piedi, sotto un albero, ma c’era qualcosa di diverso…non piangeva.
Aveva smesso di piovere. Ero fradicia perciò non m’importò se la panchina su cui mi sedetti era bagnata.
Sentii u rumore di passi e, poco dopo, il calore di un corpo vicino al mio, seduto affianco a me. Il cuore mi esplose, senza motivo, cominciò a galoppare. Sentivo il suo sguardo attraversarmi la pelle e arrivarmi al cuore. Lo vidi con la coda dell’occhio togliersi la pesante maglia e porgermela.
Alzai lo sguardo. Nel farlo mi sentii mancare, questa volta nessun gioco di luce nascose ai miei occhi quel viso, dapprima le labbra, il naso, gli zigomi e infine gli occhi, quegli occhi.
Gli occhi di Timo.
Mi guardò dubbioso e mi fece un cenno d’incoraggiamento. Afferrai la maglia e la infilai. Profuma di muschio bianco e di mare, di muschio e alberi, di salici ed acqua salata…profumava di lui. Di quel ragazzo che avevo tanto sognato.
Il suo profumo mi inebriava, facendomi affluire il sangue alle guance, facendo accelerare il mio cuore e poi rallentare, a intervalli irregolari.
Ogni respiro di quel profumo era come respirare vita, come respirare…nuova forza.
“Ti senti bene?”.
La sua voce non fece che peggiorare la situazione, così profonda, bella e invitante, che il mio cuore, già al galoppo, dovette inciampare da qualche parte e ruzzolare a terra. Mi salì un cerchio alla testa e mi sentii mancare. Mi toccò un braccio.
In quel momento mi sembrava che non stesse facendo nulla per migliorare la situazione.
Quel tocco mi fece quasi svenire, la sua pelle fredda e marmorea, contro la mia calda e tenera.
“Non respiro…” biascicai a fatica.
“Hai preso troppo freddo, non devi correre sotto la pioggia…” mi rimproverò.
Ma che fa? Mi fa la paternale? pensai tra lo scocciato e il divertito.
“Aspetta…” sussurrò e in un momento le sue braccia furono incollate alle mie spalle, il suo respiro così vicino al mio, le nostre guance che si sfioravano di qualche centimetro…mancava davvero poco e avrei perso i sensi.
“N..no…non è il freddo” cercai di allontanarlo e lui si ritrasse di poco, guardandomi interrogativamente. Arrossii violentemente mentre sussurravo “Sei tu…”.
Mi fissò sorpreso per qualche istante e mi lasciò con un “oh…” a riempire il silenzio. Si lasciò sfuggire un sorriso compiaciuto di troppo e gli lanciai un’occhiataccia.
L’ho guardato male? Ma sono pazza? Cioè! Ma che mi prende? mi rimproverai mentalmente.
“Sono Timo” si presentò improvvisamente, io lo guardai, lo so avrei voluto rispondere.
“E tu sei…” mi incoraggiò lui fraintendendo il mio silenzio.
“Sono Tim…cioè no…Kalindi…ma chiamami Lindi” risposi confusa.
Sono Timo? ripetei nei miei pensieri, Bella mossa, Lindi! Bella mossa!
“È da qualche sera che ti vedo…più che altro ti sento” ingiunse lui, era chiaro come il sole che avrebbe voluto sapere perché urlavo come una deficiente in piena notte.
“Beh…io…” non so da dove mi salirono le parole, ma cominciai a raccontare tutto di me, le parole scorrevano e il mio sguardo avido di lui non si perdeva una sua minima mossa, m’immersi nei suoi occhi profondi, due pozzi di sentimenti, emozioni, vi lessi gioia, dolore, allegria, tristezza, ma soprattutto rabbia. Chissà cosa legge lui nei miei…mi ritrovai a pensare.
“La verità è che sono arrabbiata, molto arrabbiata. Se il mio cuore provasse solo un sentimento, il più forte sarebbe la rabbia, perché ne ho troppa” conclusi. Ero passata da mia madre, a mio padre, al mio salice piangente, a Claudia ed Hermet, alla rabbia che provavo con un solo discorso.
Lui ascoltò tutto e sembrò immagazzinare.
“Non puoi immaginare quanta ne ho io di rabbia” rispose alla mia non domanda.
Lo guardai pensando che era impossibile che potesse averne più di me. Anche lui cominciò a raccontare. Mi raccontò storie che già sapevo su di lui, degli anni di collegio che tanto odiava, ma raccontate da lui erano tutt’un’altra storia.
Mi disse che quello era il parco in cui si rifugiava quando riusciva a scappare dal collegio, che andava lì a sfogarsi, a rigettare la sua rabbia, il suo furore.
“Ma la rabbia che avevo allora, non si è mai placata, né prima, né ora, allora vengo qui, a rigettare il mio dolore per quegli anni, sperando che un giorno svanisca. Ma la rabbia mi tenta, come una furia nel mio petto, mi fa diventare violento…mi fa perdere letteralmente il controllo, se non la scarico” mi confessò con lo sguardo fisso alle sue mani.
Si toccò distrattamente il bordo del frontino.
“E ora devo sfogarla, piangere non mi basta mai…” sussurrò ancora e questa volta la sentii, una rabbia di fuoco nella sua voce, un fuoco che bruciava tutto ciò che gli stava accanto.
Inaspettatamente si alzò.
“Fermami solo se strettamente necessario, di solito ci pensa il custode, ma visto che ci sei tu…” mi sussurrò e io lo guardai spaesata.
Ma di che parlava? Fermarlo da cosa? E io come facevo a sapere quando era strettamente necessario? E, poi, necessario CHE COSA??
“Ma…cosa…” cercai, ma le parole mi morirono in bocca quando lo vidi, guardia alta rivolto all’albero, come se volesse abbatterlo.
Sta scherzando, non lo fa davvero…pensai con un sorriso.
Sbagliavo. Con un urlo, lanciò il primo pugno, con forza, dritto al centro del tronco.
Ma sei pazzo?! stavo per urlare, quando mi ricordai delle sue parole e non lo formai. Sentivo nel mio cuore che era profondamente sbagliato ciò che faceva, ma sapevo anche che lui ne aveva bisogno, perciò non parlai.
Lo fissai mentre si faceva del male, gli occhi che grondavano lacrime di rabbia e di dolore, ma non si fermò, neppure quando le nocche gli si aprirono, un a ad una, nemmeno quando schegge di legno gli penetrarono nelle ferite aperte, continuava imperterrito a picchiare il legno, come se ne andasse delle sua vita.
“Basta…” era un sussurro appena. “Basta!” ripetei un po’ più forte quando non resistetti a quella vista, ma lui non si fermò ancora. Le mani grondanti sangue, non si era lasciato sfuggire un gemito. “BASTA!” urlai in fine e lui sembrò ritornare alla realtà.
“Mwhh” grugnì massaggiandosi le dita.
Si lasciò scivolare affianco a me sulla panchina. Gli fissai le mani, dalle nocche spuntavano frammenti di corteccia e il sangue gli sporcava le mani e le braccia, ormai fino ai gomiti.
“Sanguini troppo e rischi di fare infezione con quegli spini” dissi indicandogli le mani. “Abiti molto distante da qui?” chiesi e lui annuì incapace di parlare per il dolore. “Ti porto a casa mia” dissi decisa e lui non oppose resistenza. Mentre stavamo percorrendo la via alberata sentii dei passi e un uomo sbucò dall’oscurità. Il suo volto passò da me a Timo.
“L’ha fatto di nuovo” sospirò l’uomo. Pensai alle parole di Timo poco prima, quello doveva essere il guardiano. “Ci pensi tu?” mi chiese l’uomo e io annuii.
Ripresi a camminare, più veloce che potevo. Aveva il volto terreo in contrasto col colore scarlatto del sangue.
Arrivammo davanti alla soglia di casa mia dopo una decina di minuti. Troppi . Pensai allarmata. Quando fummo sul marciapiede davanti casa mia, lo fermai, mi sporcai le mani con il suo sangue e sporcai il terreno con quello. Ripetei l’operazione più volte finchè il colore della terra non mutò. Avevo già una scusa pronta per Claudia ed Hermet che da lì a qualche istante si sarebbero trovati uno sconosciuto sanguinante in casa.
Spiegai il mio piano a Timo.
“Difficile uscire da una rissa senza un livido in volto” dissentì lui. Ci pensai qualche istante. In effetti era vero, troppo vero.
“Dammi un pugno”. Lo guardai con gli occhi sbarrati. “Cosa??” esclamai guardandolo come se avessi di fronte ET. “Fallo, devi farlo o..” non lo lasciai finire, non so da dove trovai la forza ma gli sferrai un pugno in pieno volto. “Ohio!” esclamò lui “bel destro”. In pochi minuti il suo zigomo si gonfiò e divenne di un leggero bluastro.
Entrai in casa, aprendo la porta con la chiave di scorta e all’ultimo momento mi accorsi di avere il suo maglione, lo tolsi e lo gettai a terra.
“Claudia!!” esclamai facendo rumore. Sarebbe stato sospetto se non l’avessi chiamata e poi non sapevo dove si trovavano i farmaci.
Scese tutta trafelata, con Hermet al seguito. Si lasciò sfuggire un urlo alla vista di Timo. Lo riconobbe, ne fui sicura, ma afferrò la situazione al volo e andò ad uno scaffaletto estraendo garze, cerotti, pinzette e acqua ossigenata.
“Com’è successo?” chiese mentre facevo sedere Timo al tavolo.
“Ho sentito delle urla da fuori così mi sono affacciata e ho visto dei ragazzi, quattro o cinque che lo picchiavano, ho minacciato di chiamare la polizia, sono scappati e sono scesa a vedere come stava, riusciva ad alzarsi perciò l’ho condotto in casa e ti ho chiamata” feci il resoconto. Una bella bugia pensai.
“E perché hai usato le chiavi di riserva?” chiese sospettosa, passandomi le pinzette.
“Mi ero chiusa fuori” mentii, ancora senza insicurezze. Notai Timo che mi guardava ammaliato dalla prontezza delle mie risposte.
“E come hanno fatto questi pezzi di legno a finirti nelle nocche?” era più una riflessione. Timo fu lesto quanto me. “Ho picchiato i pugni a terra” rispose.
“E perché mai?” chiese Claudia inorridita.
“Frustrazione” rispose lapidario lui.
Una ad una gli tolsi tutte le schegge, poi gli feci immergere le mani nell’acqua ossigenata, gli sfuggì un gemito.
Guardai l’orologio per controllare che passassero almeno un paio di minuti e, nel farlo, constatai che erano le due di notte. Pensavo fosse più tardi, mi dissi.
Allo scoccare del secondo minuto gli tolsi le mani dall’acqua ossigenata e lui sospirò di sollievo. L’emorragia si era ormai fermata. Presi delle bende e delle garze e gli fascia leggermente, ma con decisione, entrambe le mani. Misi un po’ di disinfettante sulla destra prima di chiudere la fasciatura perché mi sembrava quella presa peggio.
Stavo per chiedere se poteva restare durante la notte quando Claudia mi precedette, rivolgendosi direttamente a Timo. Dopo qualche pressione acconsentì.
Lo portai in camera mia, con imbarazzo sempre crescente.
“Bel ragazzo” commentò quando vide il suo dipinto al muro “ e bei gusti musicali” sorrise scorrendo i poster. “Claudia ed Hermet hanno esagerato…” mi giustificai, anche se non lo pensavo davvero, mi piaceva la mia camera, tappezzata di immagini e con le pareti arancioni. Sorrise.
“Narcisista” scherzai sottovoce e la sua risata cristallina mi fece venire un nuovo capogiro. Doveva essere un sogno.
Mentre Hermet sistemava una brandina il più distante possibile dal mio letto (c’era stata una lunga discussione ma alla fine avevo vinto io e avevamo deciso di lasciarlo salire nella mia stanza), Timo sbirciava con non curanza tra i fogli della mia scrivania.
Lo vidi soffermarsi su uno in particolare. Mi avvicinai. Arrossii all’istante, era il disegno con l’albero e…lui. “Sono io?” chiese ed io annuii rossa per l’imbarazzo. “Non sapeva ancora che eri tu, egocentrico” scherzai.
“Meglio così, almeno ti interesso non solo perché sono il cantante dei Panik, mi avevi in mente anche non conoscendomi” disse quasi tra sé ed io non persi l’occasione di provocarlo offertami su un piatto d’argento. “E chi ti dice che m’interessi?” abbassai la voce per non farmi sentire da Hermet.
Sorrise malizioso, ma lasciò cadere la provocazione.
Hermet uscì, lasciando aperta la porta e sottolineò il concetto “la porta è aperta!”.
Lui si voltò permettendomi di indossare dei vestiti asciutti, grazie al cielo aveva ricominciato a piovere nel momento giusto.
“Non sbirciare” sussurrai quasi sperando che non mi sentisse. “Non mi tentare” mi rispose invece lui sottovoce. Il mio cuore galoppò a quelle parole.
Mi stesi sul letto. Lo sentii avvicinarsi. Si chinò su di me e in contemporanea si tolse il cappellino lasciando respirare i capelli, si avvicinò terribilmente alle mie labbra e all’ultimo deviò, baciandomi la guancia. “Buona notte” sussurrò tra i denti, ancora troppo vicino.
Si allontanò ed andò a stendermi.
Aveva giocato, sì.
Ma lui non sapeva che con quel gioco aveva risvegliato il mio essere donna e l’aveva fatto esultare, non sapeva di aver acceso un nuovo bisogno in me, con quel gesto.
Non mi bastava più vederlo, avevo bisogno delle sue parole, avevo bisogno delle sue labbra, avevo bisogno del suo corpo…avevo bisogno di lui.
Avevo voglia di lui.
Una grande e dolorosa voglia di lui.